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Il medico del lavoro ai tempi del COVID-19

I medici competenti hanno dovuto attingere nuove risorse per la gestione del periodo di emergenza, aggiornandosi sulle più disparate materie, dalla giurisprudenza alla chimica organica, alla psicologia del lavoro, e raccomandando l’integrazione del proprio ruolo con l’apporto di figure specialistiche

Articolo di Paolo Santucci, medico chirurgo specialista in medicina del lavoro

Negli ultimi anni, in ogni contributo di medicina del lavoro dedicato agli uffici, il tema ‘rischio biologico’ si concentrava sulla problematica della ‘legionellosi’, correlata spesso a una insufficiente manutenzione degli impianti di condizionamento dell’aria. Le pubblicazioni più attente raccomandavano anche misure di protezione per gli addetti al ‘front office’, pulizie più profonde ai pavimenti ‘moquettati’ per prevenire manifestazioni allergiche da acari della polvere e la proposta di una vaccinazione antinfluenzale con l’obiettivo di ridurre la morbilità nel corso dell’epidemia stagionale.
I più raffinati, infine, si soffermavano anche sulle più rare manifestazioni di ‘astenopia oculare’ da infezione locale, favorite da una scarsa igiene di tastiere, mouse e piani di lavoro.
Dall’anno 2020 non sarà più così! Tutti gli ambienti di lavoro sono stati interessati dall’emergenza legata alla pandemia da COVID-19 e anche gli operatori al videoterminale, al di là della repentina trasformazione in ‘smart worker’, sono stati sensibilizzati a seguire tutte le norme di igiene e sicurezza, dettate da DPCM e Accordi nazionali, Delibere e Circolari, documenti prodotti da ASL e Associazioni scientifiche. Ad oggi i principali adempimenti che hanno segnato la Pandemia sono stati il Protocollo condiviso e i numerosi DPCM.


Impresa Vs COVID-19

Le singole aziende hanno promosso, contestualizzato, integrato se del caso, le misure preventive-protettive disposte dai DPCM, agendo sul piano igienico-sanitario e organizzativo. Tutte le azioni sono state inserite formalmente in un protocollo aziendale di sicurezza, ispirato al ‘Protocollo condiviso’ che, a seconda dei casi, si è concretizzato in un documento a sé di gestione dell’emergenza COVID-19, oppure in una integrazione del Documento di Valutazione dei rischi. Una volta promosse le misure preventive di tipo igienico sanitario, dalle sanificazioni all’uso del gel igienizzante, dalle mascherine al distanziamento interpersonale, le aziende hanno dato prova di ‘creatività’ sul piano organizzativo. Negli uffici hanno promosso un’esperienza unica, attuando un ‘pacchetto di misure’ finalizzato a ridurre, o addirittura annullare, i contatti tra gli impiegati.

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Sono stati perciò introdotti l’obbligo dello ‘smart working’ per tutte le attività in cui era possibile, lo smaltimento di ferie arretrate, totale oppure parziale per favorire orari di lavoro spezzati e sfalsati nel corso della giornata. Inoltre sono stati tracciati percorsi obbligati per favorire entrate e uscite diversificate e scaglionate nel tempo durante la giornata lavorativa. È stato anche previsto l’allontanamento fisico delle scrivanie oppure l’introduzione di separatori, la sospensione di riunioni e corsi di formazione, salvo che in modalità da remoto, la disposizione di rapportarsi soltanto tramite e-mail, il divieto di frequentare altri uffici e, ove possibile, di utilizzare l’ascensore. Verso l’esterno, fonte di potenziale contagio meno controllabile, sono state realizzate forme di isolamento, limitando o riorganizzando le consegne dei fornitori, sempre allo scopo di evitare qualsiasi contatto o soltanto avvicinamento fisico.
Con l’avvicinarsi della ‘fase 2’, la ripresa dell’attività lavorativa per le aziende ‘non essenziali’, è stata caratterizzata da non poche preoccupazioni per il ritorno progressivo dei lavoratori alle proprie postazioni con il rischio di alimentare la stessa pandemia. Accertato l’insufficiente apporto del Legislatore, che ha introdotto obbligatoriamente la ‘visita di rientro’ soltanto per i casi già accertati tramite il tampone diagnostico, le aziende si sono spesso appoggiate a laboratori privati per una diagnostica integrativa su base volontaria, e poi al medico competente per la gestione dei risultati, nel tentativo di acquisire qualche elemento di tranquillità in più prima di ripopolare gli ambienti di lavoro.
Tutte le misure intraprese dalle aziende sulla base del ‘Protocollo condiviso’ e di una vasta e successiva produzione di orientamenti, oltre ad aver contribuito concretamente a spezzare la catena di contagio del virus COVID-19, costituiscono adesso un patrimonio di conoscenze da cui attingere, sia per l’immediato futuro, sia nella malaugurata eventualità di nuove pandemie.


La consulenza dei medici competenti

Originale e articolata si è rivelata anche l’esperienza consulenziale dei medici competenti nel terziario e negli uffici in particolare, sempre meno impegnati nella sorveglianza sanitaria, man mano che la pandemia avanzava. L’attività si è perciò concentrata a fianco delle aziende che chiedevano supporto per numerosi aspetti sanitari e organizzativi, dalla gestione dei rientri dalla Cina e zone limitrofe a inizio pandemia fino alla gestione dei casi ‘positivi a COVID-19’ all’apice dei contagi e alla gestione del progressivo rientro al lavoro con le problematiche correlate. Tuttavia a inizio emergenza il medico competente si è occupato delle schede di sicurezza dei prodotti sanificanti e della qualità delle mascherine, dell’introduzione dei termoscanner e della gestione dei primi ‘contatti indiretti’ che, suscitavano allarme in lavoratori e aziende ancora in piena attività.
Il periodo del ‘lockdown’, tra marzo ed aprile, è stato caratterizzato da telefonate e ‘call conference’ per gestire i casi positivi e attendere l’esito dei tamponi, isolare i casi sospetti e individuare i possibili ‘contatti stretti’, o ancora partecipare alle riunioni del ‘Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione’.
Una attenzione particolare è stata dedicata alla controversa tutela dei ‘lavoratori fragili’, a partire dalla definizione: il riferimento corretto è fornito dalla Organizzazione Mondiale della Sanità oppure dall’art.26 del Decreto Cura Italia?

Comunque una normativa confusa, che contrapponeva privacy e tutela dei lavoratori più deboli, mescolava competenze di medici di famiglia e medici legali, ma alla fine scaricava la responsabilità ultima sul medico competente ai sensi dell’art.12 del ‘Protocollo condiviso’.
Tuttavia i medici competenti hanno cercato, con i pochi mezzi a disposizione, di tutelare la salute dei soggetti affetti da malattie croniche, degenerative o neoplastiche, richiedendo lo smaltimento di ferire arretrate, l’esclusione dal contatto con il pubblico, l’attività in luogo protetto, l’uso di mascherine performanti, oppure lo spostamento a eventuali attività eseguibili in modalità smart working, fino al ricorso alla cassa integrazione nei casi più gravi.
L’inizio della ‘fase 2’ è stata caratterizzata da una forte pressione delle aziende per accedere a strumenti diagnostici, ipotizzati anche dall’Allegato 6 DPCM 26/4/20, che consentissero al medico competente di certificare una sorta di condizione ‘Covid-19-free’ per i lavoratori nell’ambito di una caotica produzione normativa. Ma in qualche caso si è creata quasi una psicosi collettiva, tra falsi allarmi per casi sospetti in azienda e timori per il rientro del lavoratore ancora potenzialmente contagioso, che ha richiesto un ‘extra-sforzo’ di relazioni interpersonali, tra informazione e mediazione, al fine di favorire una serena prosecuzione dell’attività lavorativa. La medicina del lavoro si è perciò confermata una materia tipicamente interdisciplinare. Mai come in questo caso i medici competenti hanno dovuto attingere a tutte le proprie risorse per la gestione del periodo di emergenza, oltre che ad aggiornarsi sulle più disparate materie, dalla giurisprudenza alla chimica organica, alla psicologia del lavoro, raccomandando spesso l’integrazione del proprio ruolo con il necessario apporto di figure specialistiche esterne all’azienda.
Ma il grande sforzo generale ha prodotto buoni risultati. La finalità del lavoro di squadra consisteva nella progettazione e realizzazione delle migliori misure preventive e protettive, sia individuali che collettive, allo scopo di spezzare la catena del contagio all’interno delle aziende con inevitabili ripercussioni favorevoli anche al di fuori di esse. E così è stato. Nell’ambito di una indagine preliminare del Ministero della Salute su migliaia di casi registrati in Italia è stato accertato che soltanto il 4,2 % dei contagi si è verificato nell’ambito di luoghi di lavoro ‘extra-sanitari’.

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Lo smart working

Ma è stato veramente ‘smart working’? Probabilmente no, almeno nel caso dei ‘neo-smart worker’.
Si è trattato di una improvvisata forma di telelavoro domestico, più che di smart working, poiché il ‘lavoro agile’ si associa a una nuova concezione di lavoro, più dinamica e modulata sugli obiettivi. Ma va anche detto che in pochi giorni agli oltre 500.000 smart worker si sono aggiunti circa 8 milioni di ‘home worker’ (Osservatorio del Politecnico di Milano), grazie alle facilitazioni introdotte per le aziende, compresa l’informativa ai lavoratori scaricabile direttamente dal sito INAIL (DPCM 25 febbraio 2020).

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Ma, a proposito di ‘home working’, ci viene in soccorso una indagine, svolta in tempi ‘non sospetti’, che dimostra come si possa realizzare lo smart working a casa propria con risultati molto favorevoli in termini di salute, benessere e produttività, a condizione che sia completato un adeguato percorso formativo multidisciplinare (P. Santucci, Lo smart working ideale é.. l’home working?, Medico Competente Journal, n°2/2019).
Infatti, operare in un contesto domestico per intere giornate si è rivelato molto diverso per milioni di ‘neo-homeworker, rispetto all’ambiente dedicato del proprio ufficio. Perciò non sono mancati consigli e raccomandazioni da parte del medico competente sulle problematiche muscolo-scheletriche e oculovisive, per supportare i lavoratori nelle prime giornate domestiche trascorse in postazioni improvvisate.
La scheda informativa INAIL rappresenta un buon strumento informativo di partenza, tuttavia è possibile, anzi auspicabile integrarlo con altri strumenti, al fine di realizzare una work-esperience di benessere e gratificazione professionale.
In ogni caso l’esperienza di ‘smartworking forzato’ ha segnato una svolta nella storia del mondo del lavoro, aprendo una nuova strada che, dopo un esordio di improvvisazione, non potrà che consolidare la nuova modalità di lavoro, facendo tesoro della inattesa esperienza in piena emergenza pandemica.


Un’esperienza umana

Al di là dell’operatività ‘tecnica’, sono stati giorni molto intensi per i medici competenti, anche sul piano umano ed emotivo. I lavoratori esposti al rischio apparivano tutti uguali nella paura di essere stati contagiati o di aver contagiato un collega, nel timore di non tutelare un familiare anziano, il coniuge, oppure un figlio minorenne.
Durante i periodi di domiciliazione forzata, aggravata dal distanziamento con i più stretti famigliari, non è mancata una angoscia strisciante, difficile da stemperare, tra tamponi che mancavano, ‘strani disturbi’ che insorgevano e il timore che disturbi respiratori potessero insorgere improvvisamente, obbligando a un ricovero ospedaliero, forse in terapia intensiva.
Tuttavia, bisogna ammettere che non è mai venuta meno la compostezza e la collaborazione dei lavoratori interessati, sia nel rispetto della quarantena di Legge, sia nella condivisione di un periodo di isolamento domiciliare a titolo cautelativo.
Si è trattato perciò di una intensa attività condotta per lo più ‘in remoto’ con passaggi in azienda in pochi casi.
L’esperienza non può essere certamente paragonata all’attività svolta dai Colleghi in prima linea nel corso della emergenza pandemica, ma il dramma dei lavoratori ammalati e subito ricoverati, a causa di un nemico invisibile ed in gran parte ignoto, ha lasciato indubbiamente il segno.

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Conclusioni

Se ce n’era ancora bisogno, la drammatica pandemia ha confermato il ruolo centrale del medico competente nelle aziende del terziario e negli uffici in particolare, anche nel corso dell’emergenza virologica. Durante la crisi si è formato in molti casi un costante filo diretto con le principali figure aziendali o con singoli lavoratori in difficoltà, dopo che si è individuato nel medico degli uffici l’autentico ‘punto di riferimento’, pienamente coinvolto nella gestione operativa della crisi.

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Nella voluminosa produzione di notizie da parte dei ‘media’ il medico competente è stato completamente ignorato durante la piena emergenza fino alla sua riscoperta in occasione dell’inizio della ‘fase 2’, quando protocolli e DPCM, Circolari nazionali e delibere regionali lo hanno messo, spesso confusamente, al centro di qualsiasi attività sanitaria di supporto all’azienda.
Fortunatamente la maggior parte dei medici competenti, ricorrendo a tanto buon senso, ha cercato di contestualizzare nelle aziende il coacervo di norme in base alle specifiche necessità, contribuendo prima all’interruzione della catena dei contagi e poi al ritorno in sicurezza dei lavoratori ai propri posti di lavoro.
Ma le soddisfazioni maggiori le abbiamo riscontrate nei ringraziamenti di tanti lavoratori e datori di lavoro, responsabili dei servizi di prevenzione e protezione e rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, mai visti così disorientati e bisognosi di un supporto sanitario . In definitiva l’apporto del medico competente si è confermato come una autentica consulenza a 360°, insostituibile in diverse fasi della vita aziendale, che può rappresentare la fortuna di ogni impresa, piccola o grande, purché siano chiare, anche nell’emergenza pandemica, le potenzialità che può offrire questo professionista interdisciplinare della prevenzione.


A cura della redazione

Officelayout è la rivista di Soiel International, in versione cartacea e on-line, dedicata ai temi della progettazione, allestimento e gestione degli spazi ufficio e degli edifici del terziario

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