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Strumenti ergonomici, e non, nell’ufficio moderno

Un excursus su com’è cambiata la sensibilità e la conoscenza verso i principi ergonomici che dovrebbero governare il difficile rapporto tra utenti e strumenti, arredi e ambienti di quel luogo di lavoro chiamato ufficio, nel quale molti di noi trascorrono buona parte della propria vita

Articolo a cura di Francesco Marcolin Fondatore e General Manager di ERGOCERT – Ergonomics Certifying Institute, Psicologo del Lavoro ed Ergonomo Europeo Certificato e Docente universitario.


In principio il concetto di ergonomia era ricondotto principalmente agli strumenti di lavoro e alla loro rispondenza alle caratteristiche antropometriche degli utilizzatori.

Sono trascorsi più di trent’anni da quando, per salvaguardare la propria salute nel lavoro d’ufficio, abbiamo imparato che la seduta che ci veniva fornita doveva avere tutta una serie di regolazioni, non sempre facili da usare, per indurci assumere la corretta postura assisa, cioè seduti. Nel contempo abbiamo anche imparato quale fosse la corretta postura e, soprattutto, abbiamo scoperto il magico effetto del supporto lombare nel costringerci dolcemente ad assumere la posizione più gradita alla nostra schiena.

Qualche azienda, più focalizzata sui temi ergonomici, da tempo, ha immesso sul mercato delle soluzioni più “coercitive”, le sedute tipo Balans (e sue derivate), come a dire: “Se non ce la fai a mantenere diritta la schiena quando sei seduto, allora ci pensiamo noi a costringerti a farlo!”.

Ma tali sedute, basate su concetti assolutamente corretti e soluzioni financo geniali, non sono fruibili da tutti. È infatti necessaria una predisposizione mentale verso le nuove soluzioni, ginocchia non fragili visto che parte del lavoro di scarico del peso grava appunto sulle ginocchia e un sistema vestibolare efficiente, dato che il continuo ondeggiamento provoca in diversi soggetti delle sensazioni di insicurezza e, non ultimo, un abbigliamento adeguato essendo necessaria un’azione di scavalcamento per sedersi che mal si concilia con le gonne strette. Si tratta, inoltre, di sedute non indicate per chi è in sovrappeso dato che la dinamica d’uso di tali prodotti prevede appunto che, per potersi sedere vi è richiesta una certa elasticità muscolare più compromessa per i soggetti più corpulenti, ma anche per quelli più in là con l’età o non propriamente atletici.

Molti, nonostante siano attratti da queste geniali proposte o vengano consigliati dal proprio medico ad acquistare questo tipo di seduta, non riescono ad abituarsi a questi particolari strumenti che è senza dubbio indicata per brevissime sessioni di lavoro, ma non per tutti i lavori d’ufficio, oltre al fatto che non è facile restare anche solo per un’ora a cavallo di un attrezzo che dondola continuamente e che richiede ardite sollecitazioni alla testa del femore per “entrare ed uscire” dalla seduta. A quel punto, il ritorno alla vecchia sedia risulta la migliore scelta, pur cercando di utilizzare qua e là il costosissimo “cimelio”, se non altro per dare un senso al costo della propria scelta!

In seguito, nonostante ci fossimo dotati delle sedie operative più performanti, e quindi anche molto costose, o di particolari sedute specificamente progettate per mantenere diritta la schiena, gli studiosi della materia hanno scoperto che non faceva affatto bene trascorrere più di due ore seduti davanti al videoterminale in postura fissa prolungata e che quindi andavano fatte diverse pause durante la giornata in ufficio, al fine di mobilizzare il rachide lombare.

La seduta ergonomica non basta

I medici del lavoro lavorarono a lungo per capire la causa dei disturbi e delle patologie del sistema osteo-muscolare scheletrico e tessuto connettivo. Venne fuori che una delle principali responsabili era, ed è, la postura fissa prolungata, come oggi riportato nella classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati (ICD-10 del 2016).

Esperti di ergonomia e scienze mediche ci dissero che alla fin fine, l’unico modo per nutrire i dischi intervertebrali e renderli forti e resistenti era quello di muoverci e cambiare posizione spesso durante la giornata, giacché i suddetti dischi non essendo vascolarizzati dovevano trarre nutrimento per osmosi dalle zone adiacenti e per questo motivo la mobilizzazione della colonna vertebrale risultava decisiva per il benessere del nostro rachide. E avevano maledettamente ragione!

D’altra parte, se il buon Dio ci ha fatti senza un sistema venoso direttamente collegato ai dischi intervertebrali una qualche ragione ci sarà stata. Forse ha pensato che per sopravvivere avremmo dovuto andare a caccia ogni giorno (e quindi muoverci e camminare e correre) e che, per tale motivo, bastava fare arrivare le vene che portano il nutrimento fino ad una zona limitrofa al disco intervertebrale che, per mantenersi efficiente, proprio come fa una spugna, avrebbe dovuto solo pompare all’interno le sostanze nutritive e sputare fuori quelle di scarto. Il meccanismo “osmotico” è senza dubbio geniale e consente al disco operare con la massima efficienza, ma solo se ci muoviamo con una certa continuità. Evidentemente se il settimo giorno, invece di riposarsi, avesse pensato a come sarebbe andata a quella parte di umani che da anni fa uso di tecnologie informatiche che costringono a mantenere per tutto il giorno delle posture fisse prolungate, oggi non soffriremmo di mal di schiena, lombalgie, ernie del disco, ecc.

Riflettendo, molti hanno realizzato che, fino a quel momento, eravamo stati esposti a un rischio subdolo e furbetto. Stando comodamente seduti in ufficio davanti al nostro computer pensavamo di svolgere un lavoro a basso rischio e invece stavamo ogni giorno minando la salute della nostra schiena scoprendo che, da questo punto di vista, rischiavamo più noi colletti bianchi rispetto a un operaio che lavorava in fabbrica o in un cantiere edile. Beh, non è sempre così. In realtà, il rischio biomeccanico, per molte attività, era ed è più elevato in fabbrica, ma il fatto di pensare di non rischiare nulla e, nel contempo, di danneggiare irreparabilmente la nostra schiena faceva della “postura assisa prolungata” il nostro incubo quotidiano. Anche perché, quando si manifestano i sintomi importanti come ad esempio una sciatalgia, oramai è tardi.

Eppure a quel tempo, generava proteste e malcontento il fatto che ogni volta che si voleva lanciare una stampa eravamo obbligati ad alzarci dalla nostra postazione per raggiungere la stampante posta in un corridoio molto distante o in un atrio molto arieggiato che uno zelante RSPP aveva individuato per collocare le stampanti e i fotocopiatori nel rispetto dei dettami del vecchio D.L.gs 626/94 che recitava senza possibilità di appello: “…viene stabilito che fotocopiatrici e simili non possono essere collocate nelle immediate vicinanze di scrivanie e postazioni di lavoro. In caso di omissione grave e ripetuta, il lavoratore può anche scegliere di astenersi dal lavoro fino a quando le regole non sono seguite appieno”.

Da quel giorno la distanza dalle stampanti e dai fotocopiatori aumentò, come pure il numero di passi che facevamo all’interno dell’ufficio.

Peccato. Era così comodo avere la stampante a portata di mano sul proprio tavolo! Ci si poteva anche scaldare con l’aria della ventola (anche perché ignoravamo che inalare ozono o la micropolvere di toner della stampante laser proprio salutare non era) e bastava allungarsi con un movimento leggero anche se ergonomicamente incongruo per catturare il foglio ancora caldo di stampa. Ricordo ancora il profumo del toner. Bei tempi!

Piano piano quindi, abbiamo dovuto cambiare le nostre abitudini, cominciando a camminare lungo i corridoi dell’azienda, a muoverci di più, a ripensare il nostro modo di vivere strumenti e spazi di lavoro in ufficio.

Qualcuno ebbe anche il coraggio di manifestare apertamente ciò che tutti pensavano e non osavano dire: “Con quest’ultima trovata avranno finito di dirci tutto quello che dobbiamo fare! Ci lascino lavorare come abbiamo sempre fatto!” E invece no.

Il movimento è vita per i dischi intervertebrali
Il nutrimento avviene in modo osmotico attraverso il movimento: Corsa, camminata >> moto
Rigidità: veloce denutrimento e conseguente logoramento con rischio  di lacerazioni

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Parola d’ordine: movimento

Pensavamo che ci si fermasse lì e invece, un giorno, sono apparsi diversi sistemi per lavorare un poco seduti e un poco in piedi. Le nuove ricerche mediche sul lavoro d’ufficio avevano messo da tempo in luce la necessità di alternare più spesso le posture per evitare problemi al sistema osteo-muscolare scheletrico e al tessuto connettivo di coloro che lavoravano con i videoterminali tutto il giorno.

Detto, fatto. Le aziende leader svilupparono le più svariate soluzioni al fine di farci lavorare con il computer in un modo più sano. Dapprima apparvero delle scrivanie elevabili meccanicamente o elettricamente e che consentivano di lavorare sia seduti, che in piedi.

Meravigliose! Ma costavano cifre improponibili per la maggior parte delle aziende e quindi restarono un sogno per alcuni anni, almeno fino a quando le economie di scala e la produzione a basso costo realizzata nei paesi dell’estremo Oriente cominciarono a impattare sui prezzi rendendo finalmente possibile l’acquisto di una di queste fantastiche scrivanie.

Nel frattempo, si erano sviluppate soluzioni di costo più accessibile come i sistemi Sit-to-Stand Workstation, inizialmente, degli ingombranti catafalchi, oggi molto più evoluti ed usabili, che ancor oggi vanno utilizzati appoggiati sulla scrivania tradizionale, ma che consentono di alternare il lavoro seduto a quello in piedi. Altre aziende si dotarono di svariati moderni sistemi per offrire ai propri dipendenti nuove modalità di lavoro più in linea con i più avanzati modi di vivere il lavoro d’ufficio. In alcuni uffici sparirono addirittura le sedie per far posto a misteriose sfere di gomma: le Seat Ball, che si presentavano in varie forme e colori.

A che cosa servivano? A mobilizzare… il solito tratto lombare. Oddio, qualcuno utilizzandole, mantenne certamente in salute il tratto lombare, ma anche cadde all’indietro o lateralmente. Nella maggior parte dei casi, nulla di grave, ma alcuni, la cui storia andò diversamente, chiesero e ottennero di ritornare immediatamente alla cara vecchia sedia operativa. Per far fronte a ciò, qualche produttore ha sviluppato una soluzione che prevede il posizionamento della palla gommata su un telaio dotato di ruote pivottanti che migliora decisamente la sicurezza del prodotto per l’uso come sedia operativa in ufficio.

A proposito di quest’ultimo punto, vi è da dire che tali sistemi in ambito professionale e utilizzati da diverse aziende ancor oggi, non rispondono per nulla a quanto richiesto nel Titolo VI dall’allegato XXXIV del D. Lgs. 81/08 e segg., ma, si sa, qualcuno è più temerario di altri, dopo aver sostituito tutte le sedie presenti in azienda con le Seat Ball, attende con aria di sfida la prima ispezione da parte dell’Azienda Sanitaria Locale per convincerli che il Mondo è cambiato!

L’attività fisica intensa ed estrema e posture scorrette (es.: lavorare al VDT per lungo tempo,andare in macchina per molte ore, ecc.) sovraccaricano i dischi intervertebrali. Nel tempo può determinarsi un assottigliamento per deidratazione. La nutrizione dei dischi, infatti, non avviene attraverso i capillari sanguigni. Esercizi adeguati favoriscono la reidratazione dei dischi e un afflusso di sostanze nutritive

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Ma il bello doveva ancora arrivare

Per favorire il movimento, qualcuno volle andare oltre e introdusse improbabili attrezzature pur di favorire il movimento. Cose da non credere! Parti di bicicletta collegate maldestramente ad un piano di lavoro dotato di videoterminale, tapis roulant, piani di lavoro adattati a una cyclette e finanche una improbabile ruota girevole forse per ricordarci… “quanto è bello lavorare come nel nostro mondo di… criceti”.

Qualcuno si concentrò più sul concetto applicato a soluzioni economiche nella speranza forse di fare breccia su coloro che, pur volendo seguire la tendenza, non desideravano o non potevano investire grosse cifre. Apparvero così svariati “oggetti” più curiosi che efficaci: da improbabili sistemi da collegare alla scrivania per rilassare le gambe fino ad ardite amache da collocare sotto la scrivania.

Altri percorsero un’altra strada: quella dei cuscini gommati pieni d’aria da applicare sulla sedia d’ufficio tradizionale che costringono a una continua mobilità il rachide o delle pedane ad aria da utilizzare nel lavoro in piedi per forzare alla continua mobilità il malcapitato. Molti soggetti facenti uso di quest’ultimo sistema e da me personalmente intervistati hanno dichiarato di preferire il male di schiena piuttosto di continuare a utilizzare uno strumento del genere!

Qualcuno invece, sviluppò soluzioni più tecnologiche applicando il concetto di “mobilità forzata” a sedute tradizionali, ma dotate di un piano di seduta mobile collocato su una molla il cui movimento costringe l’utente a una postura più corretta.

Altri ancora si orientarono su un prodotto molto particolare da utilizzarsi in ufficio: il siedi in piedi, supporti mobili per il lavoro in piedi e da seduti, declinati in innumerevoli versioni, non sempre ergonomicamente riuscite, al di là del successo commerciale. Il siedi in piedi rappresenta una soluzione interessante, ma solo se accompagnata dalla corretta scelta del prodotto che deve essere progettato per mantenere senza sforzo la corretta curva lombare, ma deve anche essere confortevole e soprattutto dinamico, cioè consentire un’ampia mobilizzazione della schiena da seduti per un uso SitStand, cioè sia sedendosi in modo tradizionale (con scrivania a 74 cm) sia operando in piedi (con scrivania in massima elevazione). Ma non basta. È necessario che gli utenti si sentano sicuri qualunque movimento facciano, che sia bilanciato e con un baricentro basso al fine di non ribaltarsi o costituire intralcio o pericolo per l’utente e, infine, che sia facilmente trasportabile. Poi se il siedi in piedi è dotato di una certificazione per l’ergonomia erogata da un Organismo indipendente Accreditato… meglio.

Ciò che in tutti questi prodotti sembra sempre sfuggire ai progettisti è la mancanza di un’analisi di usabilità e di user experience. In altre parole, al di là del reale funzionamento del prodotto, raramente sembrano porsi la domanda: “Ma come interagiranno i diversi tipi di utenti con il mio prodotto? Procurerà loro incertezze, paure, insicurezze, pericoli (come cadere) rispetto alle abitudini acquisite?”

Sì, lo so. Queste sono le domande che si pone l’ergonomo, ma comunque un progettista dovrebbe avere ben chiaro il fatto che se il prodotto genera un rapporto (di interfaccia) non fluido o addirittura conflittuale con gli utenti (intesi non come un utente standard, ma i diversi tipi di utenti cui quel prodotto è destinato), la reputazione e di conseguenza le vendite del prodotto saranno fortemente minate.

Nuovi modelli di welfare ispirano nuovi layout

Naturalmente, tutti questi sforzi per risolvere le problematiche legate a salute e benessere sul posto di lavoro a nulla sarebbero valsi, se non fossero stati accompagnati da azioni di welfare aziendale. In altre parole, le aziende avevano iniziato a fare tutto il possibile per rendere i comportamenti e il modo di pensare delle persone al lavoro meno distanti da ciò che le stesse facevano e pensavano nel tempo libero.

Alcune aziende più visionarie di altre introdussero concetti nuovi, ma l’emulazione cominciò a prendere piede quando Google propose al mondo il suo modo di fare welfare, la sua organizzazione del lavoro e un nuovo modo di progettare i luoghi di lavoro. I suoi colorati uffici comunicati al mondo intero con la potenza di fuoco di Google in una serie di scatti fotografici che divennero iconici, diventarono il punto di riferimento per tutte le aziende che si sentivano moderne o volevano dare l’impressione di esserlo. In quelle immagini si vedeva gente che lavorava sdraiata su materassi o fantozziani pouf o addirittura per terra, alcuni lavoravano con il loro laptop su tavolinetti tipo bar o su delle amache, altri suonavano la chitarra, altri ancora giocavano a basket o a tennis tavolo o a biliardo…in ufficio! Insomma, visto con i nostri occhi da dinosauri: un casino incomprensibile!

Ci chiedevamo come facessero a lavorare in modo efficiente, a essere produttivi, ma anche come facesse Google a tutelare la loro salute.

Due erano le cose: o tutto quello che ci avevano detto sul rachide, sul famigerato “sostegno lombare”, sulle posture incongrue, sulle pause muscolari, quelle visive, ecc. erano importanti ma non basilari; oppure c’era un’altra verità. Fu allora che scoprimmo che il sistema normativo italiano sulla sicurezza nei luoghi di lavoro era molto diverso da quello applicato in altri Paesi. Questa convinzione, però cominciò a vacillare quando molte aziende italiane sposarono il “modello Google”. E allora venne fuori che tale modello bene si sposava in determinati contesti, in particolare quelli collegati ai diversi business legati al mondo di Internet che consentivano molta più mobilità interna e dove il concetto di “propria postazione di lavoro” poteva essere facilmente soppiantato dal concetto “si può lavorare dove ci viene meglio farlo e…chi se ne importa se non ho una mia scrivania!”, privilegiando le relazioni interne, la comunicazione e la creatività.

E, laddove il contesto non fosse favorevole per creare uffici così moderni e spregiudicati a causa della specifica natura del lavoro che richiedeva modalità più tradizionali, le aziende introdussero il concetto di “benessere in ufficio” anche qui declinandolo in più modi: distruggendo i vecchi layout e ripensandoli in modo più moderno e funzionale per la fruizione degli spazi oppure trasformando gli enormi stanzoni suddivisi in box o riempiti di scrivanie in batteria, in un inno al “Pollice Verde” fatto di percorsi piantumati con scrivanie annesse o introducendo in ufficio dei veri e propri giardini da utilizzarsi nelle pause, nel tentativo di comunicare che il mondo era cambiato e la nuova tendenza era quella di lavorare in un ambiente salubre e piacevole.

Ci restava però sempre il dubbio di come le aziende italiane (che dovrebbero rispettare i quadri legislativi e normativi del Paese in cui operano) riuscissero a bypassare… tutti quei precetti sulla salute in ufficio, sulle posture e su tutto resto di cui abbiamo parlato prima, che potevano essere considerati rigidi, ma erano comunque ciò che la legge richiede. Avevamo speso parte della nostra vita solo per formarci sul “che cosa si deve fare in ufficio per preservare la nostra salute”. Tutto perduto? E, se sì, a causa di che cosa?

La mia opinione sulla causa di tutto questo cambiamento stava forse nella concomitanza di tre determinanti fattori:

• la Tecnologia, che ha consentito possibilità operative in condizioni di mobilità impensabili fino a pochi anni prima;

• l’apertura delle aziende, ma anche sindacale dei sindacati e della politica, verso ciò che la Psicologia delle organizzazioni andava suggerendo da tempo e cioè l’attenzione per la componente psicologica non solo in chiave di prevenzione dei disagi (vedi: stress lavoro correlato), ma anche per migliorare le performance delle persone al lavoro che lavorano attraverso un complesso lavoro di attenzione nei confronti delle esigenze personali di ogni singolo lavoratore. Tutto ciò al fine di migliorare la “conciliazione” tra lavoro e tempo libero, nel tentativo di far convivere questi due elementi tradizionalmente ritenuti inconciliabili;

• La rilettura dei “precetti” medici che avevano dominato fino a quel tempo in ottica più olistica (cioè, Ergonomica), sposando concetti più moderni per cercare il giusto compromesso tra rischi biomeccanici, componenti psicologiche (stress vs soddisfazione) e prospettiva esistenziale (senso del lavoro nella vita di ogni lavoratore).

Il passaggio da un lavoro d’ufficio costretto dal vincolo della staticità e della scrivania a un lavoro più libero (in senso biomeccanico), ha prodotto effetti differenti nelle diverse generazioni di lavoratori e per i diversi ambiti aziendali in cui è stato applicato già prima del fatidico 2020 in cui si è verificata la pandemia di Covid19 che ha cambiato tutto nel modo di approcciare il lavoro imponendo un cambiamento ineluttabile che, probabilmente si sarebbe completato in alcuni anni e che la pandemia ci ha invece fatto forzatamente sperimentare in alcuni mesi.

Bruciando i tempi, da un lato abbiamo potuto apprezzare il vantaggio di capire velocemente il cambiamento che il futuro ci avrebbe riservato, ma dall’altro non ci ha dato il tempo di adattarci producendo effetti negativi di non poco conto. Certamente, l’aumento delle depressioni o della perdita di senso esistenziale sono state causate in gran parte dalle particolari condizioni di vita imposte dalla pandemia, ma tutto ciò è stato accompagnato dalla necessità di continuare a lavorare da remoto estendendo anche a quest’ultimo le percezioni negative associate alla pandemia, tanto che molte persone che prima della pandemia sognavano di poter lavorare da casa, dopo l’esperienza pandemica hanno desiderato ardentemente il ritorno in ufficio.

Hanno cioè (ri)scoperto che cosa significhi vivere e lavorare in condizioni di isolamento e di conseguenza il valore della socializzazione, delle relazioni umane e di tutte quelle necessità di interscambio sociale di cui ha bisogno un “animale sociale” come l’essere umano.

Da questo punto di vista, in tema di ufficio, le nuove tendenze progettuali che favoriscono la socializzazione e la comunicazione tra individui (anche su temi non strettamente lavorativi come ad esempio per le attività ludiche svolte con i colleghi di lavoro) vanno certamente nella direzione giusta perché, con il modello Google, il tanto sognato ‘team building’ si realizza in buona parte da sé in quanto le persone si relazionano a un livello diverso rispetto a quello professionale conoscendo più a fondo i propri colleghi di lavoro e aumentando il senso di fiducia e la condivisione dei valori tra le persone con evidenti ricadute positive sull’area professionale (aumento dell’efficienza, della creatività, ecc.). È però anche vero che, in alcuni casi conoscere i propri colleghi non risulta positivo, ma ci dovremmo allora chiedere che tipo di relazione si instaurerebbe “non sapendo chi ci sta di fronte” in termini di collaborazione, efficienza, creatività, ecc. In realtà, la risposta la conosciamo già in quanto è ciò che succede quotidianamente in tutte le realtà lavorative “vecchio stile”.

Ma il modello Google, paradossalmente, favorisce anche l’opposto, cioè il soddisfacimento di una esigenza che ha ogni essere umano e che spesso è stata sacrificata in nome della comunicazione allargata: la privacy.

La necessità di poter disporre di spazi propri per potersi concentrare meglio, per pensare, per recuperare energie nervose, trova in questo nuovo modello, una risposta facile e immediata giacché i progettisti hanno creato “porzioni di spazio” e talvolta anche strutture (es.: cabine, isole di lavoro, e finanche una roulotte), dedicate proprio a questo.

Ma in questo panorama, come fa l’azienda a tutelare la salute dei propri collaboratori nel rispetto delle leggi vigenti (almeno in Italia)?

La libertà da costrizioni di tipo strutturale (scrivanie, ecc.), rappresenta un fattore non solo positivo, ma direi decisivo che cambia il modo di interpretare i precetti legislativi e normativi. Vediamone alcuni:

• l’aumento delle possibilità di muoversi liberamente durante la giornata rappresenta la prima risposta efficace a quelle che Bruno Maggi, padre di molti ergonomi italiani, chiamava “costrittività organizzative”;

• la possibilità di variare spesso i movimenti e le posture assunte è, in sintesi, ciò che ci hanno sempre raccomandato di fare fino a oggi tutti gli esperti di medicina del lavoro ed ergonomia;

• l’adattabilità degli strumenti utilizzati, in altre parole, significa che non devo per forza posizionarmi e adattarmi rispetto ad un layout di scrivania definito come avviene nei posti d’ufficio tradizionali, ma posso trovare la “mia posizione giusta” per svolgere quel dato lavoro in quanto posso assumere tutte le posture possibili e l’esiguo peso dei laptop o dei tablet attuali associato all’assenza di cavi di collegamento, mi consente una libertà operativa senza pari.

È evidente che, se da un lato, i tre punti succitati rappresentano la realizzazione dei principi ergonomici e che quindi determinano la piena conformità ai precetti legislativi e normativi (non foss’altro perché la legge stessa eleva “il rispetto dei principi ergonomici” quale precetto guida per tutte le specificazioni operative riportate nei diversi allegati o nei diversi riferimenti presenti negli articoli), dall’altra richiedono che le aziende facciano tutti gli sforzi possibili per formare nel modo più completo i loro collaboratori i quali dovranno quotidianamente imparare a auto-regolare il proprio comportamento.

In questo, per fortuna, la nuova cultura del benessere e della forma fisica nonché gli strumenti presenti sul mercato (palestre, App, device vari, ecc.) aiutano non poco (specialmente le nuove generazioni) ad apprendere velocemente e facilmente tutte le conoscenze necessarie per vivere in salute e che sono massicciamente presenti sulla Rete.

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Lavoro da casa, stress e diritto alla disconnessione

Poi, se spostiamo tutte queste riflessioni nello specifico campo del lavoro da remoto, dove, per “remoto” non si intende solo la spiaggia da sogno o lo chalet montano immerso nella natura, ma più prosaicamente “casa propria”, il discorso si fa più complesso e articolato in quanto tale ambiente, dedicato a scopi diversi dal lavoro, non sempre possiede le caratteristiche fisiche (es.: dimensioni, disponibilità di spazi dedicati, ecc.) o “psicologiche” (es.: privacy, controllo del rumore, presenza di altri soggetti, ecc.) per poter lavorare senza stress.

E in tali contesti lo stress rappresenta la “bestia nera” da conoscere, controllare e, se possibile, eliminare! Su questo, ciò che le aziende hanno finalmente compreso è che risulta necessario mettere un freno temporale all’iper-connettività che produce stress aggiuntivo quando non funziona!

Le ricerche scientifiche ci dicono che rispondere alle email a qualunque ora oppure essere connessi continuamente (aggiungerei: e non solo per ciò che concerne il lavoro) provoca notevole stress e, nel medio e lungo periodo, incide pesantemente sulle performance dell’individuo anche se quest’ultimo adora il proprio lavoro. Quindi restare sempre connessi e “sul pezzo” non fa bene al nostro equilibrio psichico e non fa bene all’azienda perché compromette la possibilità di “rendere” quanto potremmo. E questa “legge” vale per tutte le tipologie di lavoratori, nessuno escluso.

L’essere umano ha bisogno di spazi fisici, ma soprattutto psicologici per (ri)trovare i propri equilibri. Il tempo dedicato al lavoro, per essere efficace, deve prevedere un inizio e una fine durante la giornata e gli “spazi” lavorativo e privato dovrebbero restare separati perché complementari l’uno all’altro. L’effetto che si genera fondendo questi due spazi è quello di disporre più di un “luogo psicologico” prima che fisico in cui rifugiarsi, in cui essere ciò che si desidera essere, senza nulla togliere al lavoro e al nostro desiderio di realizzarci professionalmente.

Significato del lavoro

E alla fine siamo arrivati nel campo di ciò che significa per ognuno di noi lavorare e se ciò ha a che fare con un concetto che chiamiamo “felicità”. Non è questa la sede per approfondire tale tema, ma mi sembra utile riportare quanto disse un noto filosofo del passato cercando di definire la felicità:

“La felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa”. (Friedrich Nietzsche)

Mi sembra uno spunto interessante da cui partire per le nostre personali riflessioni su che cosa rappresentino e significhino per noi il lavoro, l’azienda, la carriera, le relazioni con gli altri, la famiglia…e, in poche parole, la nostra vita.


A cura della redazione

Officelayout è la rivista di Soiel International, in versione cartacea e on-line, dedicata ai temi della progettazione, allestimento e gestione degli spazi ufficio e degli edifici del terziario

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