Luca Solari

Professore ordinario di Organizzazione aziendale presso l’Università degli Studi di Milano e fondatore di OrgTech, società di consulenza research-based

Guardare al futuro degli spazi ufficio, dopo un momento di discontinuità come quello vissuto negli ultimi due anni, significa innanzitutto interrogarsi sulle trasformazioni nell’organizzazione del lavoro e sui nuovi stili di vita delle persone che in parte condizioneranno le scelte delle aziende.

Lo sdoganamento dello smart working, passato da progetto pilota per alcune grandi organizzazioni a modalità lavorativa trasversale, indipendente dalle dimensioni o dall’ambito in cui opera l’azienda, rende di fatto obsoleto il modello di lavoro taylorista, che presuppone lo svolgimento dell’attività lavorativa in uno spazio e in un arco temporale ben definiti e uguali per tutti. Modello sul quale per lungo tempo si è basata la progettazione degli spazi ufficio, seppur con diverse declinazioni. Tra gli esempi più evoluti vi è l’activity based working, cioè un’offerta di spazi diversificata utilizzabile in relazione al tipo di attività da svolgere, dunque maggiore mobilità e non più il solo lavoro alla scrivania, ma pur sempre all’interno dei confini dell’ufficio.

Le nuove condizioni, legate a un balzo in avanti di cinque anni nell’adozione delle tecnologie per la comunicazione a distanza e il conseguente affermarsi del lavoro da remoto, cambiano di fatto i rapporti tra le persone e le organizzazioni rendendo necessaria una riprogettazione del lavoro con ricadute sul concept degli spazi. Ne abbiamo parlato con Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione aziendale presso l’Università degli Studi di Milano e fondatore di OrgTech, società di consulenza research-based.
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In che modo la pandemia si è riflessa sull’organizzazione del lavoro?

Vi sono due declinazioni, la prima legata agli aspetti manageriali e organizzativi e la seconda attinente alla progettazione dell’office space.

Relativamente ai temi organizzativi, la pandemia ha evidenziato come gran parte dei modelli di funzionamento e di gestione dei team fossero legati alla convinzione che è più facile coordinarsi quando si è nello stesso ufficio, con carenze evidenti su temi come la distribuzione e pianificazione delle attività, il piano dei flussi di lavoro e le responsabilità individuali. È emersa dunque la necessità di mettere ordine nel modo in cui le attività vengono distribuite e sviluppate sia a livello dei processi organizzativi, sia negli stili manageriali.

Sul tema degli spazi credo invece che, per la prima volta da quando si è iniziato a parlare di Activity Based Working, le organizzazioni si siano rese conto, avendo un grande test di dislocazione delle persone in remoto, e avendo attivato dei meccanismi di ascolto sulle preferenze individuali che solitamente non erano nelle loro corde, che vi è un ampio margine di match tra le attività che le persone svolgono e la configurazione degli spazi. Per cui in vista del rientro in ufficio ci si dovrà interrogare su quali attività dovranno essere svolte nelle sedi aziendali e, di conseguenza, come dovranno essere riorganizzati gli spazi.
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Come si stanno muovendo le organizzazioni? Come cambia il ruolo dell’HR?

C’è un primo gruppo di organizzazioni che hanno come obiettivo quello di tornare alla situazione pre-covid, limitando gli accordi sul lavoro agile e cercando di gestire quello che emerge dalle esigenze delle persone. Non si tratta solo di piccole e medie imprese, ma in generale di imprese dove domina una cultura manageriale tradizionale e taylorista. Oppure imprese con una forte base manifatturiera che, avendo una larga parte di lavoratori che non può essere abilitata a modalità di lavoro a distanza, percepiscono il grande rischio della conflittualità che si potrebbe generare per la percezione di iniquità tra chi può e chi non può lavorare in modo flessibile.
C’è poi un secondo gruppo di aziende che sta reagendo con soluzioni che definirei ‘one size fits all’ stabilendo, in maniera semplificatoria, ad esempio di fare due giorni a casa e tre in ufficio, senza ragionare sugli effettivi bisogni delle persone. Il massimo che viene fatto è inserire negli accordi individuali voci relativamente alle dotazioni per il lavoro da remoto.
C’è infine un terzo gruppo che ha colto appieno la sfida dell’activity based working e parte dal presupposto che una soluzione ‘one size fits all’ può scontentare tutti e non essere facilmente gestibile, perché scarica di fatto la responsabilità decisionale sul middle-low management, non sempre è attrezzato per gestire in maniera adeguata questi aspetti. Non solo, rischia di creare forti differenze tra i diversi team.
Questo gruppo di aziende, consapevole del fatto che ci sono vantaggi nel rimettere mano ai propri processi di lavoro, sta lavorando a livello micro, raccogliendo le preferenze delle persone su ipotesi di ridisegno dell’esperienza di lavoro, su linee guida per implementare le tecnologie, su un modello di lavoro ibrido ottimizzato su specifiche esigenze…
In questa prospettiva assume un nuovo peso il middle management fondamentale nel riunire le organizzazioni, fungendo da anello di congiunzione tra le esigenze del singolo e quelle delle organizzazioni. Abbiamo bisogno che queste figure abbiano un modello di gestione completamente diverso, perché è lì che si gioca la partita del modello ibrido.
In tutto ciò come cambia il ruolo del responsabile delle risorse umane? Nelle aziende più aperte diventa l’interlocutore privilegiato nelle iniziative di revisione dei processi che vedono un forte coinvolgimento e investimento anche da parte dei vertici aziendali. Mentre negli altri casi la sensazione è che sia più un controllore del rientro ed esecutore formale degli accordi previsti dalle normative.
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È di questi giorni la notizia sul Corriere della Sera del boom di licenziamenti tra i giovani in cerca di un lavoro migliore, di fronte a un avvicinarsi del ritorno in azienda… Come è cambiato nelle persone il modo di intendere il lavoro? Quanto saranno disposte a mettere in discussione l’autonomia e il tempo guadagnati? 

La pandemia ha aumentato le opzioni di scelta sia dal punto di vista del modello organizzativo, sia dal punto di vista delle preferenze delle persone. Prima avevamo un modello organizzativo basato essenzialmente sul fatto che una larga parte della popolazione aziendale condividesse gli spazi e il tempo del lavoro, quindi una situazione di forte aggregazione. Le altre soluzioni di lavoro non erano territori di progettazione organizzativa, piuttosto sperimentazioni, esercizi teorici, progetti pilota… C’erano persone che godevano delle possibilità date dalla normativa sul lavoro agile, o di altri elementi di flessibilizzazione del loro lavoro, ma la normalità era recarsi in ufficio per un orizzonte temporale predefinito.

Con la pandemia queste due ‘normalità’ sono ‘esplose’ perché abbiamo modi inediti di gestire le informazioni. Allo stesso tempo, le persone hanno scoperto che era possibile e lecito avere preferenze eterogenee che non possono essere ricondotte unicamente all’alternativa tra lavoro in ufficio e lavoro da remoto. Siamo di fronte a una situazione molto più complessa dove c’è chi vuole tornare al lavoro fisicamente negli spazi, chi vuole tornare solo in certi momenti, chi non vuole tornare per nulla, chi vuole decidere quando tornare… Insomma, un mondo di possibilità in cui le persone si sentono legittimate a chiedere nuove condizioni, anche in relazione al fatto che, anche lavorando a distanza, il mondo ha continuato a fluire. Questa è la vera sfida per l’HR. Avendo occasione come OrgTech di rappresentare il loro partner scientifico e professionale posso testimoniare la grande varietà di possibili configurazioni.

Molte organizzazioni stanno facendo survey interne per capire. A mio parere il passo successivo, rispetto alla survey che fornisce delle percentuali ma non identifica chi fa le richieste, sarà attivare una co-progettazione che ha l’obiettivo di analizzare quali delle opzioni calzano meglio con il ruolo delle singole persone. Ovviamente questo significa introdurre delle tematiche di formalizzazione contrattuale più complesse, tematiche di governo dell’equità complessiva che attengono all’area HR e tematiche di governo della sostenibilità della soluzione che gravano sulle spalle del manager. Tre elementi vanno allineati tra loro e non è una cosa facilissima.
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Che ruolo giocherà la rivoluzione digitale nello scardinare le vecchie regole?

C’è un rapporto co-evolutivo, dove da un lato sono state rispolverate tecnologie che già avevamo, dall’altro vengono sviluppate soluzioni per nuove esigenze.

Vi è però una conflittualità latente. Il mondo corporate, che ha accettato con fatica il ‘bring your own device’, non vede di buon occhio l’ipotesi che i team utilizzino software non legacy. Allo stesso tempo le tecnologie legacy fanno fatica a incorporare le nuove esigenze.

La realtà è che già una larga fetta di persone utilizza strumenti e software non legacy per svolgere attività aziendali, con un tema importantissimo di cyber security. Le organizzazioni hanno due opzioni: bloccare tutto per la sicurezza, ma non trovo senso in questo, oppure capire come incorporare questi due mondi in una logica plurale di uso della tecnologia.
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In questo panorama sempre più diversificato e plurale del lavoro, come dovrà essere riletto il ruolo dello spazio ufficio?

Credo che ci sia la necessità di maggiore collaborazione tra HR e Facility Manager, arrivo al punto di immaginare che ci potrà essere la necessità di un ruolo ibrido, di interfaccia tra i due mondi, che potremmo chiamare employee experience manager, cioè qualcuno che possedendo la grammatica alla base della progettazione degli spazi, sia in grado di mettere l’office design al servizio delle esigenze dei processi produttivi. Un profilo che oggi non ha un percorso formativo e professionale definito e dunque potrebbe essere creato attraverso una formazione interna.

È necessaria una sperimentazione guidata e attenta perché nella letteratura organizzativa, e penso anche in quella degli spazi, manca un corpo di conoscenze sul rapporto tra performace e spazio nelle sue diverse declinazioni. Quello che sappiamo da ricerche è che certe caratteristiche degli spazi possono stimolare performance nell’innovazione, ma in molti casi si tratta di aneddotica legata a come si era pensata la soluzione. L’esempio più classico è la connessione tra open space e una maggiore interazione tra le persone. In realtà nelle ricerche non c’è evidenza di questa correlazione. La sensazione è che, nel disegno di nuovi office space pre-covid, la modularità logica dello spazio abbia portato a soluzioni così simili per organizzazioni così diverse tra loro, da far sorgere dubbi sul fatto che si sia ragionato sulle effettive destinazioni d’uso.


A cura della redazione

Officelayout è la rivista di Soiel International, in versione cartacea e on-line, dedicata ai temi della progettazione, allestimento e gestione degli spazi ufficio e degli edifici del terziario

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